Vecchio orto
con ciottolato. Sedilo |
Architettura
povera
Vecchia foto
(del 1960 circa). Suggestive case antiche di basalto a Sedilo.
L'arcaico mondo contadino iniziava
a prendere contatto con
le
nuove mode. |
Photo of
ancient houses. Sardinia
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Dopo l'ardia.Sedilo,
6 luglio 2008
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Costanzo
Sanna
Le gemelle Farinèddas
Una cammina avanti
e l’altra dietro, semplici e lontane, irraggiungibili, i volti
minuti, i nasini infantili, gli occhietti raggianti di felicità.
Si fermano a parlare un momento con le donne e i pastori di
Sètilus, concedono la loro presenza diafana, le parole piume,
danno bacetti sulle guance alle amiche e agli amici che
incontrano, uccelli liberi. Le camiciole nere, uguali, profumate
di bucato, le gonne larghe e lunghe, i grembiuli a minuscole
fantasie, le scarpette scure senza tacco. «Chi le ha mai viste tristi o lamentarsi?» «Hanno il passo degli angeli». «Dove vanno spensierate e solenni?» «Vanno a bussare alle porte del cielo». «Chissà quali parole si diranno tra di loro!» «Si guardano negli occhi e dicono: tu sei come me». Sono piccole come le
zànas, che all’imbrunire si
allontanano dalle grotte verso le case della periferia del
paese. Bussano alle finestre e con voce flebile chiedono un
panetto di lievito. Le massaie lo fanno trovare loro sul
davanzale. Se incontrano una persona lungo il cammino, si
nascondono negli anfratti delle rocce, timide e guardinghe. «S’Agostiàna
sembra il padrone e Rosaria il cane dietro». Il loro padre, Pedru Farina, era custode del santuario campestre
di San Costantino, dove abitavano nell’infanzia, alla fine
dell’Ottocento. Da lui ereditarono l’appellativo di sas
Farinèddas. Nate in una terra di pecore, di carri trainati
da buoi, di vacche, di massaie, di uomini accecati dalla sete
del pane quotidiano, vivevano nella povertà più nera. Un giorno
restarono prive persino del denaro per il pane. Disperate,
presero una zappa e scavarono nella corte di San Costantino. In
mezzo alla terra apparvero tanti scudi, e con quei soldi
mangiarono per un mese. «Nei momenti di maggiore bisogno, quando non c’erano vie
d’uscita, ci ha aiutate la Provvidenza». La madre, piccola e dolce, morì ancora giovane, il fratello
partì alla ricerca della fortuna in terre lontane. Loro
abbandonarono la casa di san Costantino e iniziarono una nuova
vita in paese. Il padre si risposò, ma presto morì anche lui. La
loro casa fu divisa: alla matrigna andarono la cucina con il
forno, stanze grandi e luminose, a loro due stanzette con un
orticello. Sotto un fico, in un angolo, cagano e pisciano. Dormono nello
stesso letto e lasciano due incavi nel saccone, uno leggermente
più profondo. Di tanto in tanto si recano all’immondezzaio
con il cesto di canna in mano, per raccattare pezzetti di legna. Le donne di
famiglia le spiano dalle finestre e godono in cuor loro nel
vederle raccogliere quei rametti, che loro stesse hanno
lasciato di proposito. Sarà grande il fuocherello al centro
della cucina senza camino, con i muri celesti di pietra e
argilla e il soffitto a canne oscurato da pennellate di fumo! «Passano interi giorni senza toccare cibo!» «Sono magre come due fuscelli!» «Hanno detto che moriranno insieme! Se continuano così,
moriranno davvero per la fame!» «Quest’anno nella nostra famiglia abbiamo avuto la disgrazia che
abbiamo avuto. Com’è usanza, comare mia, noi figli abbiamo
deciso di comune accordo di portare la cena una volta alla
settimana, per un anno, a quelle povere orfanelle di sas
Farinèddas, pecorelle abbandonate, buone e oneste,
che Dio le mantenga in buona salute e le preservi da ogni
tentazione». «L’opera di carità sarà di beneficio all’anima della beata». Una mattina della primavera del 1915
tziu Iuànni Roma con
la sua trombetta d’ottone dà il bando in ogni piazza: –Tu, tu,
tu, tu! Si avvisano i giovani di leva di presentarsi a
mezzogiorno in punto davanti al Municipio. Tu, tu, tu,
tu! –» Molti giovani padri lasciano le case, il lavoro per
andare in guerra, le donne e gli anziani sono costretti a
mandare avanti le famiglie, a far fronte alle campagne
abbandonate. Le due sorelle sono circondate da persone buone che
non fanno mancare loro il necessario. Quando ricevono un pezzo
di formaggio o un pugno di farina non finiscono di ringraziare i
benefattori: «Dio ve lo paghi!» Mattina e sera vanno in chiesa a pregare
per chi è lontano. Passano tre anni, la guerra finisce, ma
sessantuno dei giovani che erano partiti non fanno ritorno. «Solleva la gonna per ballare, sorella mia, danzeremo insieme in
piazza de s’Ena, tutto il paese ci vedrà. Balleremo il ballo tondo, ci divertiremo con i ragazzi e le ragazze». «Taci, S’Agostiàna, a
carnevale balleremo». «Rosa’, ho rifiutato la proposta di matrimonio per te e mi
tratti in questo modo! A carnevale mancano molti mesi, ogni
tanto sarebbe giusto toglierci qualche soddisfazione». «Pensa a filare, S’Agostia’, domani dobbiamo consegnare il
filato a tzia Assunta Mallòru. Ci porterà il formaggio,
il pane fresco, e forse un po’ di salame. Credi che a me
non piacerebbe buttare via la lana e uscirmene in piazza de s’Ena?» La finestra alta, grigia, una fessura, rende la camera da letto
una prigione, dove le due sorelle sognano. Per evadere vanno in
campagna a fare provviste. Fresca cicoria, profumati
finocchi selvatici, cardi succosi, ghiande da tostare insieme
all’orzo per su caffè, grano da spigolare. Profonde valli
alberate, rocce durissime e immobili nel letto del Tirso, acqua
limpida per lavare i panni, lunghe camminate sotto il sole con
le ceste ricolme sulla testa. L’erba gialla diventa regale sotto i loro occhi, paradisiaca, i
pastori corrono verso di loro, si abbronzano sopra i massi. I
conigli masticano l’erba tranquilli, con lo sfondo dei monti del
Gennargentu. La volta del cielo si espande ad abbracciare terre
oceaniche. La loro voce si spiega in soavi canti: «Chie istat
cun Deus si podet salvare». Rispondono i passeri, i gruccioni
variopinti, gli usignoli. Rientrano stanche, ma felici, ad
abbracciare la gatta: «Bellina nostra, Bellina nostra!» La fanno
salire sul letto insieme a loro. Al risveglio, dopo il sonno
pomeridiano, spalancano la porta, si siedono sul gradino e si
mettono al lavoro. Rosaria scioglie la lana e S’Agostiàna fila. Un giorno a filare, un altro a spigolare, uno a nettare il
grano, un altro a trasportare secchi d’acqua per gli impasti di
argilla. Con immensi sacrifici riescono a risparmiare le lire
necessarie per comprare due vestiti da cossizèras,
l’orgoglio delle donne benestanti di Sètilus: le camicie di
bianco lino tessuto al telaio, strette da fasce di broccato a
fiori di diversi colori, le lunghe gonne e i corpetti di tibet
nero, i grembiuli neri di seta, le tiazòlas, fazzoletti
bianchi di lino, gemelli e bottoni in filigrana d’argento e
d’oro. La domenica mattina, così vestite, incedono nella chiesa
parrocchiale, per partecipare alla messa grande. Le compaesane, in vestiti neri ordinari e gonne come copricapo,
sgranano gli occhi: «Come hanno fatto a comprarsi i vestiti
da cossizèras? Io che sono più ricca non posso
permettermelo». «Guarda come si pavoneggiano quelle due gocce d’acqua nei primi
banchi! E dire che mio marito ha lasciato loro nei campi un bel
po’ di spighe, dopo la raccolta, credendole povere!» «Risplendono d'oro e d'argento, sembrano
due sposine!» Spose e amanti fedeli, innamorate di Cristo e della Madonna. Al
petto portano appesa la medaglia del Cuore di Gesù. Fanno parte
del terz’ordine francescano e sono iscritte all’associazione
della Madonna di Pompei. Un giorno, durante una riunione, partecipano all’estrazione dei
biglietti per la formazione del priorato annuale della Madonna.
Vengono scelte come prioresse. In preda alla commozione
dichiarano: «Siamo onorate, ma non possiamo accettare. Come ci
procuriamo ogni settimana i fiori per ornare la cappella, come
possiamo comprare i regali alle cossizerèddas e far
fronte alle spese dei ricevimenti di apertura e chiusura del
priorato?» Le donne di Sètilus le convincono a cambiare idea, quelle più
generose offrono un concreto contributo: caffè, vernaccia, biscotti, maretos e suspiros. Viene allestito un invito in
grande stile, da lasciare le due sorelle traboccanti di
meraviglia. Nella chiesa di Santa Croce indossano sfolgoranti i
vestiti da cossizèras, sedute in prima fila, davanti
agli altri membri del consiglio, sulle sedie con
l’inginocchiatoio. È finito il ricevimento ufficiale, è arrivato il momento di far
partecipare le vicine alla festa. Per la casa si espande il
profumo del caffè carico, la tavola è imbandita. Intanto proseguono le guerre: di Spagna, di Etiopia e la più
tragica di tutte, la seconda guerra mondiale. Aumenta la
povertà. Gli esattori, accompagnati dai carabinieri, vanno nelle
case di chi non riesce a pagare le tasse e sequestrano i mobili,
lasciano soltanto il letto. Le persone ricavano i vestiti da
vecchie tovaglie, tende o stoffe conservate, tessute al telaio.
Ricevono le tessere per ritirare la porzione di farina scura,
pasta nera come il carbone, sapone e altri beni di prima
necessità. I pastori e gli agricoltori ritirano la farina e la
pasta solo per non destare sospetti, ma poi non la consumano.
Nascondono il latte, il formaggio, il grano, il lardo e tutti i
cibi, che non possono tenere oltre una modesta quantità, tra
doppi muri, nelle soffitte, in sotterranei, in cassapanche e
perfino nei materassi. Le gemelle si nutrono del pane nero e
degli alimenti scartati dai compaesani. Nelle terre basse di Sètilus si accampano i tedeschi con i
prigionieri. Allestiscono un campo di aviazione. Una mattina
qualcuno bussa alla porta de sas Farinèddas. S’Agostiàna
va ad aprire e Rosaria rimane appoggiata allo stipite della
porta della camera da letto. Compaiono due tedeschi alti,
biondi, ben vestiti e ben calzati. «Noi comprare latte, uova,
polli, formaggio», proclamano. Le due sorelle si guardano negli
occhi, ridono, escono fuori di casa e indicano loro un’altra
porta: «Lì voi trovare». Dopo lo sbarco degli alleati gli aerei sibilano sopra le case.
Sas Farinèddas si nascondono sotto le porte, si abbracciano e
invocano San Costantino Imperatore. La notizia della fine della guerra arriva dalle quattro radio
presenti in tutto il paese. Le persone si raggruppano ad
ascoltarle intorno ai davanzali delle finestre, come quando
Mussolini pronunciava i noiosi discorsi. Le strade si riempiono
di gente. I soldati in licenza sparano in aria con il moschetto,
i bambini ballano. Solo i parenti dei soldati morti sono
addolorati. Al ritmo delle guerre, delle festività religiose, dei rosari
recitati nelle vie, delle visite alle amiche, dei canti di
Dio e dei gòsos, cantati negli ultimi tempi più
stancamente durante i lavori domestici, piano piano arriva la
vecchiaia. La matrigna è morta da un pezzo, si sono spenti i
contrasti con lei e le amarezze inconfessate. Le dame di carità
vanno a trovare le due sorelle sempre più spesso e portano loro
denaro. È venuto il tempo di abbandonare la casa dove hanno trascorso
lunghissimi anni, a cui si sono abituate e affezionate, il letto
alto di legno con due incavi nel saccone, la cassapanca, il
crocifisso nichelato, il quadro di sant’Agnese dagli occhi
estatici che stringe la palma del martirio, il lavamano,
le casseruole di terracotta e ferrosmalto, gli sgabelli di
ferula, la pietra del focolare. «Oh, quanti ricordi legati a questa pietra! Babbài Iuànni a
Natale ci portava in dono il ceppo, Elìas a capodanno». «Formava fiammate così alte che sembrava il falò di
sant’Antoni!» «Quanti baci e abbracci abbiamo scambiato sulla porta con le
amiche e le vicine!» «Quanta lana abbiamo filato per adornare di tappeti e coperte le
famiglie di Sètilus!» «Quante corse di stanza in stanza la domenica, a prepararci per
la messa!» «E che gioia ritrovare la casa piena di silenzio, dopo una dura giornata di lavoro!» «Mi sembra
di essere appena arrivate e dobbiamo già andare via!» «La vita è trascorsa come una settimana!» Decidono di lasciare la casa e un campicello all’ospizio, dove
si trasferiscono. Scelgono di stare in un’unica stanza. «Come
potremmo sopportare di dormire in due stanze diverse?» A dispetto della vecchiaia, ogni settimana si allontanano dal
ricovero, vestite allo stesso modo, una avanti e l’altra dietro,
silenziose, misteriose e solenni, per visitare le vecchie
conoscenti. Quando non hanno voglia di uscire, la loro stanza si
riempie di compaesane giovani e anziane. Persino gli uomini e i
ragazzi continuano a ricorrere a loro, per essere liberati dal
malocchio con calici d’acqua, grani di sale e preghiere
bisbigliate. Sas Farinèddas danno consigli e raccontano ai giovani le
storie del passato. Hanno la voce triste, pensosa, saggia, si
esprimono lentamente e con tono sommesso. Le loro parole non si
sovrappongono mai. Si spengono, come desideravano, a pochi mesi di distanza l’una
dall’altra. Vengono vestite con i vestiti da cossizèras
e ai funerali partecipa tutto il paese. Il corteo si apre con il
portatore di croce, i priori e il sacerdote, la bara trasportata
su spalla da quattro uomini, le dame di carità, i rappresentanti
del terz’ordine francescano, dell’associazione della Madonna di
Pompei e delle altre associazioni religiose, con alla testa i
rispettivi stendardi. Al seguito centinaia di persone
emozionate. Dopo molti decenni dalla morte, al loro ricordo gli anziani
abitanti di Sètilus trasognano, le menti evadono dal quotidiano.
I loro nomi ricorrono nei crocicchi, lungo le strade illuminate
dai lampioni nelle sere estive, quando i setilesi escono a
prendere una boccata d’aria dopo il telegiornale. «Una camminava avanti e l’altra dietro...» «Sembravano farfalle venute da lontano...» «Erano come cavalli bianchi che corrono sui monti...» «Figlie del vento e della polvere...»
Da Storie,
fiabe, miti, riti nelle tradizioni della provincia di Oristano,
a cura di Giuseppe Bosich e Pietro De Rosa, Edizioni Grafica
Mediterranea, 2000.
www.caseantichesardegna.it |
L'acqua di
una
vasca di pastori |
Ardia 6
luglio 2007.
Sedilo
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Ardia 6
luglio 2007.
Sedilo |
Ardia 6
luglio 2007.
Sedilo (Oristano)
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